L’abbiamo sempre saputo, fin dai tempi della scuola, che
quella forma ad arco che ha la Liguria nelle carte geografiche, contiene in sé
una metafora, come se bastasse tenderlo per poi scagliare frecce in ogni
direzione. Il mare che la bagna interamente e i monti che la cingono per tutto
il suo confine ne racchiudono ogni spazio. Non ci sono vie di mezzo, non c’è
pianura, ma solo piccoli pianori, sottratti ai colli dall’opera dell’uomo, per
strappare qualche frutto in più ad una terra così avara, come per tradizione sono
definiti anche i suoi abitanti.
In questa regione franosa, sostenuta fin dall’antichità dal
lavoro umano, si mescolano storia e civiltà di un popolo guerriero e
navigatore. Generatrice di esploratori per eccellenza, ma mai abbastanza
esplorata nei suoi anfratti più intimi.
Ecco che l’Alta Via dei Monti Liguri, per me, assume un
interesse particolare, il primo tratto di quell’immensa cerniera chiamata
Appennino, che ogni tanto si smuove appena sotto la sua superficie, lasciando
ferite troppo profonde da risanare.
Anche questa volta ho iniziato dall’ultimo tratto, per
ritornare al principio di un cammino che spero avrò il tempo di completare. Il
Levante Ligure, dal Passo del Bocco all’entroterra spezzino, ha accolto i miei
passi erranti, ancora una volta su confini tra terre un tempo contese e custodi
di storie ai più sconosciute.
Qui, dove dalle alture si può ammirare il volo di un rapace
ed al tempo stesso vedere sullo sfondo il colore azzurro del mare solcato da
scie d’imbarcazioni, o ancora imbattersi casualmente nei lupi, inizia e finisce
il percorso di chi non si sente mai abbastanza stanco per non rimettersi lo
zaino in spalla. Come diceva Calvino di quella
specie dei Liguri, “quelli che per casa hanno il mondo e dovunque siano si
trovano come a casa loro” ma che comunque “tornano e restano attaccati al loro
paese”, così sento di essere anch’io.
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